Archivio per marzo, 2013

Scrivo poesie perché non serve a niente, mi piace il gesto vano e la minuziosa perdita di un tempo regalato inutilmente, l’arrendersi nel ricordo vago concesso come dono, come un gioiello prezioso da conservare in eterno.
Scrivo poesie e stupito le guardo nascere come gemme in primavera, come briciole di un sogno nitido al risveglio. Le sento crescere dentro come un’idea di espressione, sono piccoli suoni di una parola vera, di un verbo autentico che potrebbe essere unico e invece rappresenta il sentire di una moltitudine indefinita, dal primo vagito perso nella notte del tempo fino all’ultimo respiro del mondo, perché l’uomo non è soltanto somma delle proprie personali esperienze ma anche e soprattutto insieme dei sogni e desideri più intimi e quelli sono comuni a tutta l’umanità.
Scrivo poesie perché mi rappresentano, sono tanti me stesso calati in dimensioni nuove e apparentemente irraggiungibili, tolgono le maschere e il fango che incrosta i miei occhi; sono proiezioni di un Io diverso e inaspettato, alla stesso tempo simile e differente, comparsa o protagonista assoluto di una storia.
Scrivo poesie perché non posso farne a meno, è una condanna severa giustamente inflitta e un delizioso stillicidio di pena; è l’irrinunciabile bisogno di alzare bianche vele, l’istinto benedetto di Ulisse o il maledetto desiderio di salpare verso terre sconosciute.
Scrivo poesie come sola giustificazione al mio malessere, alla parte più scura di me che non accolgo e detesto, all’ombra che spegne il sole caldo, al sale di lacrime amare e all’urlo di rabbia e di bestia ferita.
Scrivo poesie per non scriverne più, ogni volta come fosse l’ultima occasione, perché ogni strada porta a direzioni affascinanti ed insondabili ma quanto è difficile dimenticare la prudenza meschina o l’umana convenienza del sopravvivere quieto tracciando un passo in più nel futuro ed uno in meno nel tempo concesso.
Scrivo poesie per te che stai leggendo ora, lettore senza nome e sconosciuto amico. Le scrivo perché sono vivo, respiro, penso e credo; perché la Vita è la perfetta poesia, la più splendente e disperata, è quella ancora da cantare, quella che mai scriverò.

lo specchio

Pubblicato: marzo 29, 2013 in Uncategorized
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«A che pensi?» «Io? A nulla. E tu? Sembri malinconico.» Lampo di occhi nella penombra, la luce del corridoio filtra dalla porta socchiusa. «Malinconico? Non più del solito. Sai che mi piace la malinconia. È una condizione mentale, un panorama della spirito.» «Cioè?» «Come dire…la malinconia ti veste di tenerezza. Ti ammanta, ti abbraccia come una vecchia mignotta. E tu rimani in silenzio, chiudi gli occhi e ti ubriachi di ricordi.» La fessura bianca diviene ancora più sottile. «Io detesto i ricordi. Sono poveri fantasmi monchi, lenzuola appese che ondeggiano nella penombra. Il ricordo arriva quando perdi qualcosa, striscia come un ladro e ti monta sulle spalle. Il ricordo è il sigillo di ciò che non c’è più.» «No, ti sbagli amico mio. A volte il ricordo può essere un ottimo compagno di vita. Ieri ho visto un vecchio che camminava per strada. Sorrideva e sai perché? Perché il suo cuore era pieno di ricordi. Zeppo come un vaso colmo di miele. Spesso il ricordo è l’ultima spiaggia della vita, ti sdrai sulla sabbia e aspetti l’onda migliore.» Sorriso teso e forzato, bagliore di denti nel buio. «Sarà come dici tu, ma io preferisco la certezza. Voglio stringere le mani sopra un pezzo di pane, non sul ricordo di averlo mangiato.» «Vero, ma il pane che ricordi profuma di più.» «E nutre di meno.» Le nocche sfiorano la guancia sinistra. «Domani è il compleanno di tua figlia. Che le regali?» «Devo ancora pensarci. La porterò a cena fuori. Adora il sushi. A proposito, lei è uno dei miei ricordi migliori.» «Sì, però esiste ora, è viva nel presente. Domani la vedrai e stamperai un grosso bacio sulla sua fronte rosa.» «Quindi?» «Voglio dire che tua figlia non è un semplice ricordo. Non appartiene ai fantasmi monchi. Lei è pura realtà.» Rapido sbadiglio. «Sì. Però voglio dirti una cosa. Mia figlia è la somma di ciò che esiste ora e di quello che ricordo.» «Anche questo è vero. Ciò che c’è oggi è impregnato di passato. È una spugna fradicia di malinconia.» Breve cenno di mano. «È tardi. A presto.» «Salutami la bimba.» L’uomo esce dalla stanza e spegne la luce. Rimane solo uno specchio appeso alla parete e un riflesso di ricordi che balugina come avorio nel buio.

P.D.

Pubblicato: marzo 29, 2013 in poesia
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Paola vende gemiti fasulli
negli angoli di strada
a basso prezzo secrezioni
per camionisti o inappuntabili
padri di famiglia,
gli occhi accesi di mestizia
velata da un mascara limaccioso
e grandi mani per nascondersi.
Danilo sciala ore sudate
dietro un tornio in officina
cambia pelle ogni notte
dismette la divisa unta
e vende bianche polveri
di oblio balordo
e triste contentezza.
Sono nuvole difformi e differenti
ma ognuna della stessa
sostanza e consistenza,
si tengono per mano
dentro cieli immobili
sospinte da venti generosi
o dal moto diverso delle stelle.

Hai un buon profumo, di quelli che restano appiccicati addosso, intrusi tra le corde tese di un’anima troppo lontana da te. Parli in fretta e dipani un arcobaleno di parole, un gomitolo di sogni che afferri ripetutamente come un gatto. Lo lanci, nella speranza di un mio rimbalzo amico, un “ci sono, eccomi” soltanto accennato. A volte l’istinto ci spinge a depositare la felicità nelle mani sconosciute di un altro. A volte è davvero a portata di mano, ma racchiusa nelle nostre scelte consapevoli. Ti guardo, in fondo sei solo un’apparenza confusa di gioia.

Non c’è redenzione per chi spegne la speranza, non può esistere pentimento negli occhi chiusi. Stai odiando con tutte le forze quella vostra maschera così crudele e in questo odio un po’ ti riconosci carnefice di lei e di voi che ancora camminate e ridete a squarciagola ma dentro siete morti, una piccola coppia ambulante di cadaveri d’amore. Si sdruce la musica sulla tua pelle, frantuma le ossa e le ricompone in forme geometriche imprecise. È una sera di novembre e stai ascoltando lo Scherzo in si bemolle minore di Chopin che ti scivola sopra come miele dolcissimo e appiccicoso. Il modo minore esplode con echi modali nei rapidi arpeggi che sembrano gocce di nettare lasciate cadere per caso e all’improvviso, come luce abbagliante, appare il tema centrale che enarmonicamente modula alla tonalità di la maggiore. È una finestra di sole aperta su un pianeta meraviglioso, un semplicissimo “do si do mi re do do” che profuma di amore e di alcove disfatte, di fumo e di fiori. È la voce di Dio. Lei intanto si gira e rigira nel letto come una trottola e ti sfiora il piede con un piede, quasi per caso. Conosci alla perfezione quel tocco lieve, è un segnale preciso e chiaro. Questa volta non gliela darai vinta, ne sei certo. Questa volta no. Devi dimostrare di che pasta sei fatto, lei deve capire che non può decidere di te, fare il bello e il cattivo tempo come le pare. Questa volta non ti avrà. Cerchi di scostarti e di sembrare infastidito, hai il cuore pietrificato e pesante come piombo, nemmeno lo senti pulsare nel petto. Ti stringe con forza e il tuo corpo non sente ragione, di nuovo impazzisce per lei che prova e riprova a tentarti e ti accarezza ovunque, insiste dove più ti piace, sulla parte più debole che hai e ti solletica con le dita e con la bocca. Tu non partecipi e lei sale rapidamente sopra. Non resisti, è impossibile rinnegare sole e cielo, è impossibile dire no alla vita. Lei lo sa perfettamente e si volta, si gira per mostrarti la parte che più preferisci. Tu non cedi, sei irremovibile e non la tocchi nemmeno con un dito. Allora si accarezza da sola, gioca e da dietro si allarga, si spalanca per farti assistere allo spettacolo mentre si volta a guardarti per verificare le tue reazioni. I capelli biondi fluttuano ipnotici sulla schiena e ti senti ubriaco e pazzo. Crepi di voglia ma non ti muovi e lei continua a usarti come un oggetto inanimato, una bambola di cera in un rito vodoo, come un povero mezzo. Sei un burattino tra le sue mani. Ogni tanto gira ancora la testa per un’occhiata rapida, si sistema a suo piacere, ti mette comodo dentro e fuori di sé, in profondità o lasciandoti sospirare alla porta del suo limbo acquoso. Non resisti e nemmeno lei che in un attimo precipita in un baratro senza fondo e si scioglie con un gemito forte, respirando allo stesso ritmo del cigolio del letto. Ha concluso e scende da te. Si accascia, sospira e ti guarda. Sorride ed è il sorriso di chi ha vinto. Sembra dirti che nemmeno questa volta ce l’hai fatta, nemmeno oggi sei riuscito a sottrarti al suo potere enorme. Ti bacia sulla bocca e ha labbra gelide e salate. Senti che sta baciandoti come un qualsiasi don Giovanni bacerebbe la ragazzina che si è appena scopato, senza amore e senza rispetto. Si alza dal letto e si allontana. L’acqua della doccia scorre in lontananza e tu resti così, immobile e accovacciato come un feto. Pochi istanti appena, il tempo di riprendere fiato, ti alzi e ti rivesti in fretta. In un attimo sei fuori da tutto, da quel lenzuolo profumato di vaniglia, dalla tua stessa vita. Chiudi la porta alle spalle e sei in strada, dove regna un notturno padano di nebbia che ti avvolge e puoi sentire fin dentro le ossa. La città è deserta, un muro lattiginoso di fumo grigio copre e ricopre ogni cosa. Accendi una sigaretta e ti allontani piano, passi lunghi e decisi. Hai ancora il suo profumo addosso, in bocca sapore di rabbia e di lei che hai lasciato due piani più su, c’è una stretta rampa di scale che ti separa da un paradiso incompiuto, muri azzurri e quasi felicità. Hai chiuso la porta come fosse niente e te ne sei andato, svuotato di tutto, con le sue tracce indelebili ovunque. Ora cammini veloce e ti senti inappagato e perduto. Piazza del Duomo è umida e greve, ti trovi calato in un medioevo irreale mentre alzi il bavero della giacca e non sei più tu. Infili le mani in tasca e pensi ad un posto lontano, un’isola tropicale, sabbia bianchissima come neve immacolata, oceano smeraldo a perdita d’occhio e voi. Oppure una casa in Toscana, colline verdissime alle spalle e un mare d’incanto davanti. Lei è così, unica attrice del suo splendido show e spesso ti senti una piccola comparsa in questo primo tempo di voi, inquadratura a campo lungo e soggettiva stretta dei suoi occhi azzurri. Che ci vuole per lasciar perdere tutto e uscire in punta di piedi dal suo spettacolo prima dei titoli di coda? Pensi alle sue mani, le dita che ti hanno sfiorato come miriadi di farfalle delicate e tu il pianoforte stonato che lei sola riesce a suonare facendogli cantare melodie sublimi. Conosce a memoria chi sei, percorre la geografia del tuo piacere, ogni millimetro di pelle e di voglia, sacerdotessa del tuo sesso e unica padrona della tua kundalini. Sei fatto di lei e forse è davvero questo che vuoi, ubriacarti e domani svegliarti con un forte mal di testa, restare a letto e aspettare con calma che passi la sbornia. A volte vorresti non chiedere di più e non cercare un’eternità introvabile di sentimenti assoluti, ma il bisogno che senti urlare in te è forte ed è una voce che cerca posti caldi e sicuri dove posare i propri enigmi irrisolti. Vorresti completare quel mezzo empireo approssimato, quell’abbozzo di gioia, aggiungerle la parte indispensabile che senti mancare. Non credi nei sogni, continui a ripeterlo e un poco ti annoia questo ritornello puerile nella testa. Non credi nei sogni fottuti ma ancora ci pensi, ancora ti aspetti l’isola che non c’è, il Bengodi, il tuo Eden o solamente un posto per voi dove tutto sia più semplice e chiaro. Spegni la sigaretta con la punta della scarpa e vorresti che questa notte da dimenticare finisse in fretta per poterti svegliare in un domani diverso, dissimile da te.

Sei

Pubblicato: marzo 29, 2013 in poesia
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Sei inferno e paradiso
pace, guerra
sei assenso e dissenso
tempesta, bonaccia
sei sabbia e granito
spessore sottile
sei fuoco che arde
sei acqua che spegne la sete
sei e non sei
ma se sei
sei presenza insostenibile
ai sensi,
a sussurrati sensi
insaziabili
di sognatore schivo.
Sei l’ansia di sapere
tu, per sempre irraggiungibile
eppure così vicina.

 

Il passo del gambero

Pubblicato: marzo 29, 2013 in Uncategorized
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ImmagineSembrava diversa e distante. Ancora tra voi quella strana sensazione di lontananza e di gelo, dopo un viaggio da sconosciuti quasi senza toccarvi. Intorno un’atmosfera vuota e rilassata, senza la convulsione che pensavate di trovare in una grande città. Un taxi vi porta all’albergo, ora il traffico è più caotico ma resta sospeso in un clima svagato e spento. Il taxista è un burbero simpatico con l’espressione truce, sembra uscito da una pellicola di Scorsese e un po’ ti senti avvolto in un’atmosfera da film americano. Chiedi il permesso di fumare e lui risponde con un cenno, fa scendere il finestrino posteriore e mentre racconta storielle di sesso al limite della decenza tira fuori una sigaretta e ti fa compagnia. Arrivate all’albergo che in realtà è una pensione da poco, atmosfera fine ottocento, statue di gesso e macramè bianchi ovunque, persino sulla tavoletta del cesso. Stanza 209, numero anonimo e difficile da ricordare. Dovrebbe essere una vacanza rilassante di svago piacevole, una pseudo luna di miele per due amanti, invece sembrate essere una coppia invecchiata di colpo che ha diviso troppi inverni, due ruderi stantii senza più ambizioni e voglia. «Bello qui. Ti piace?» Lo dici con poca convinzione mentre lei si guarda intorno annoiata grattandosi la testa. «Insomma…Nella foto in internet sembrava meglio.» «Mai fidarsi del web. Io l’ho sempre detto.» Ti accarezza una guancia con due dita gelate. «Mi faccio una doccia. Sono a pezzi.» Si spoglia con noncuranza e mentre la osservi ti siedi su una vecchia poltrona vicino alla finestra. Toglie le scarpe da tennis e sfila a fatica un paio di jeans attillati. La pelle è abbronzata e ha il colore naturale del malto. Lascia i vestiti sul pavimento, ammucchiati come stracci sopra le scarpe, si guarda allo specchio e solleva i capelli, diventano una fontana bionda che zampilla sulla testa e intanto fa un giro su sé stessa come una ballerina. È bellissima, sì. Incontrovertibilmente stupenda. Impossibile negarlo, sarebbe come non vedere la bellezza di un dipinto di Monet, non udire la perfezione di una sinfonia di Mahler. Un tempo che sembra lontanissimo eravate felici, senza scrupoli e senza problemi, ma ora? Ora vi manca qualcosa. Il suo miele non colma più il tuo vaso, tu non sei più la soluzione al rebus intricato della sua anima ed anche questo è tristemente incontrovertibile. Lei sembra percepire ciò che stai pensando, riesce ancora a leggere quello che provi attraverso i mutamenti d’ombra dei tuoi occhi. Si avvicina senza dire nulla e ti stringe, è un abbraccio di artefatta complicità, quasi una menzogna d’attrice consumata. Posi le mani sui suoi fianchi magri con la stessa devozione di un figlio svogliato. Lei se ne accorge e avvicina le labbra al tuo orecchio. «Dammi tutto di te, non trattenere nulla dai tuoi sogni.» La voce è solcata da una sottile venatura di paura. Paura della stridente solitudine di due amanti ormai fuori stagione, paura di percepire una fine già da tempo annunciata. Prendi le sue mani e le stringi forte. «Hai già tutto di me. Cosa vuoi di più?» Ti guarda e ha una goccia di china che si stende nel fondo degli occhi rendendoli opachi. Ha l’espressione di chi vorrebbe chiedere qualcosa ma non trova il coraggio necessario per farlo e nasconde l’urgenza della domanda dietro a un vetro più scuro. Restate così, abbracciati e senza parlare. Osservi una mosca nera che si è posata sull’esterno del vetro. Sembra guardarvi mentre strofina le piccole zampe sulle ali e passeggia nervosa. Una passata di ali e un giro di valzer sul ghiaccio trasparente della finestra, tracciando un cerchio perfetto. Stai pensando a quanto sia difficile la vita di una mosca, così piccola e in balia del vento e degli uccelli in cielo. Una mosca nera che accoglie senza timore le asperità della vita, mentre tu provi paura guardando due occhi che ti cercano e hanno una punta di china in fondo alla sguardo.

La morte di un uomo

Pubblicato: marzo 29, 2013 in poesia
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Non posso gioire per la morte di un uomo,
quel corpo riverso, straziato dai colpi
di un giudizio precario e feroce,
quel viso di sangue, le mani forate,
sdraiato, gettato nel fuoco come povero straccio
le orbite vuote di luce che ancora domandano
un solo silenzio bagnato di pena,
è un povero figlio
un volto ingiuriato da un altro,
è bocca socchiusa nel rantolo
che ora racconta un giudizio severo.

Non posso gioire per la morte di un uomo,
egli è una canna spezzata di rabbia
un sibilo muto di vento,
è un grido smembrato il suo corpo
brandelli di carne, fossa di terra
dove hanno infilato le mani
ghignanti aguzzini vestiti di nero
che cambiano forma e divisa,
fantocci di stupide guerre
prevenzione di odio futuro.

Non posso gioire per la morte di un uomo
di un despota sanguinario e rapace
o un santo di luce e dolcezza,
la folla è una bestia perversa
esulta sul sangue versato
si bagna le labbra, le zanne appuntite
danzando su tristi macerie.
Lontano s’addensa il tramonto
e tutto si copre di nubi,
egli è soltanto una foglia strappata dal ramo
un triste fantoccio sbilenco,
è un Cristo martoriato e trafitto
un interrotto domani,
così mi appartiene quel sangue versato
nero e aggrumato di polvere
quel petto squarciato dall’odio,
lo sento già mio quel grido che innalza
e invoca giustizia al grigio livore del cielo.

Caro editipografo

Pubblicato: marzo 29, 2013 in Uncategorized
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Caro editipografo strana razza di editore-tipografo essere mitologico metà mecenate e metà stampatore che promuovi fantasmagorici concorsi di poesia e selezioni mirabili di testi quindi rispondi valutandoli con parole complimentose e ti congratuli pure e giudichi il nostro scrivere a un passo dal Nobel per poi inviarci un contratto di edizione parola altisonante visto che ci proponi l’acquisto di tot. copie dei nostri figli illegittimi come se oltre alla fatica al mal di vivere e allo stremo di avere partorito un’opera letteraria da te giudicata meravigliosa dovremmo anche comprarla….”per agevolare la distribuzione locale” dici…la domanda sorge spontanea… ma non sei tu che dovresti distribuire? allora ti rinfresco un po’ la memoria… l’autore scrive l’editore edita e distribuisce di solito, salvo aggiornamenti, funziona così.
Rischia si certo….in un’ Italia dove non si legge più manco la Gazzetta dove “anche Moravia pubblicò il suo primo romanzo a proprie spese…” l’editore quello vero rischia l’invenduto il salto nel vuoto ma se così non fosse che razza di editore saresti?
Caro editipografo che anche oggi mi hai inviato l’ennesimo contratto di edizione proponendo l’acquisto in “comode rate” come se dovessi comprare un divano o una lavatrice nuova con gli incentivi statali… rate comode si ma non ti sembra scomodissimo che io acquisti quello che ho scritto considerando che solitamente amo leggere ciò che non conosco e le mie parole credimi le conosco a memoria.
Anche per questo tornerò ad essere scrittore che prende appunti ovunque dal cellulare alla bustina dello zucchero che scrive e vomita sensazioni solo sue cercando la strada e la meta per scoprire poi che ciò che conta è il viaggio e non il punto d’arrivo. 
Lo farò per me stesso come è giusto che sia. 
Tornerò ad essere autore, tu però editipografo ridiventa editore.

Donne

Pubblicato: marzo 29, 2013 in Uncategorized

Di te non ho molti ricordi, solo gocce di immagini e suoni leggeri, ma i pochi che cullo nella mia testa sono ancora dolcissimi e vivi.
Per esempio ricordo il tuo profumo, quell’acqua di colonia in bottiglioni enormi sul comò in camera da letto. Entravo e il tuo odore buono era nell’aria e permeava le cose.
Ricordo il tuo vestito a fiori grandi blu che spesso indossavi in casa. 
Ricordo quando suonavamo insieme il pianoforte, tu che mi hai per prima presentato la musica, quella strana magia di tasti bianchi e neri strimpellati all’inizio solo per gioco e poi diventati importanti nella mia vita. 
Ricordo il tuo anello, acquamarina azzurratissima al dito e la tua voce dalla cucina che diceva «E’ pronto.» senza possibilità di repliche. 
Ricordo il budino di cioccolato del giovedì mattina, la pentola ancora calda ed io che frugavo con il cucchiaio e le dita per raccogliere quello buonissimo rimasto attaccato ai bordi prima di andare a scuola. 
Ricordo anche quella vacanza al mare e tu che per la prima volta ti eri persa per strada e quando ti venni a cercare credevi fossi tuo fratello, dimostrando i primi segni di una malattia cattiva e ingiusta che in poco tempo ti ha portato via.
Ti vidi per l’ultima volta in un letto bianco di ospedale, piccola e impaurita come un bambino ma senza renderti conto. 
In poco tempo hai lasciato tutto ed io che facevo finta di essere grande senza esserlo e mi nascondevo quando non riuscivo a trattenere le lacrime. 
Ecco, volevo scrivere di donne, di questa maledetta benedizione che mi accompagna, mi mette al mondo tenendomi al sicuro e attirandomi come una vertigine senza fondo. 
Donne che mi sono appartenute e alle quali da sempre appartengo, luce e ombra, la faccia più nascosta di me, mistero ed evidenza.
Donne che ridono e piangono, trattengono il fiato e tirano avanti in un mondo di maschili apparenze dove per gli uomini tutto è un poco più semplice. Donne che forse per questo vogliono assomigliare sempre più a noi e a forza di provarci diventano strani feticci. Donne che hanno la forza del vento che soffia, che piangono lacrime amare. Donne speciali soltanto per il loro essere donne, senza bisogno di altro, di stupidi orpelli e stereotipi idioti. Le guardiamo con un po’ di sospetto, sono madri, sorelle, figlie, spose; proiettate verso il domani perché il futuro è la loro dimensione e questo ci lascia un po’ impauriti, noi patriarchi codardi legati al passato.
Volevo scrivere di voi e invece mi ritrovo a parlare di te, la prima ad avere abitato la mia giovinezza ovunque essa sia.
Ovunque tu sia.