Archivio per aprile, 2013
Prefazione di Carlo De Ambrogio
La poesia di Guido Mazzolini è artigiana, viene creata, plasmata a mani nude; ogni verso è ragionato, ogni parola posizionata con sapienza al fine di creare la perfezione del significato e del suono.
Perché “Suoni”, il titolo della raccolta, non è stato certo scelto per caso. I suoni vanno oltre le parole ed i loro significati comunicano a prescindere, in un modo atavico ed ancestrale. L’intento di Mazzolini forse è quello di arrivare ad un poesia che se letta ad un uomo di un’altra lingua lo riesca comunque ad emozionare.
La protagonista del libro è la parola, nel suo essere suono, nel suo coesistere e significare insieme ad altre parole, ad altri suoni. Perché, meglio chiarirlo subito, questi testi devono essere letti ad alta voce o, quanto meno, bisbigliati fra le labbra, ma è necessario sentire tutta la corposità ed i muscoli delle parole. L’universo poetico di Mazzolini è quello umano, sarebbe meglio dire quello sulla natura umana, su una vita da vivere completamente, senza mezzi termini, senza finzioni. È una poesia eterna che si interroga su domande e questioni molto antiche (“Vivo da quando me ne accorsi / e cominciai a nutrirmi d’infinito / senza quietarmi mai, pazzo di vita.”).
Ancora in un’altra poesia: “Voi sterili parvenze docili /[…] siete risposte prive di domande / statue di cera senza l’ombra di un dubbio. […]/ Il poeta invece è soldato solitario / drizza la prua verso un oceano aperto; / il suo è un legno di parole.” Da questi versi si evince il ruolo che Mazzolini dà alla poesia ed al poeta. Ci sono gli uomini normali, che magari galleggiano nella quotidianità della vita di tutti i giorni, e ci sono i poeti che chiedono risposte alla realtà, che si interrogano sui significati e le cui azioni sono spinte da una follia, da una primigenia forza.
L’uomo recita una parte di una commedia, mandata a memoria, si lotta continuamente contro una consuetudine, contro il vivere una vita adagio; anche in questo caso il ruolo del poeta è aspettare, più forte del buio, armato di ferro e lacci di cuoio.
Il poeta non è più l’Albatros di Baudelaire: re e dominante in cielo, deriso a terra dagli uomini, ma si riprende un ruolo forte nella società, è il portatore di significati espressi come suoni, come litanie, come mantra.
La versificazione è quasi del tutto libera e sciolta da imposizioni metriche eppure nelle strofe serpeggia un ritmo ed una musicalità che giustifica il titolo. Ecco il distico finale di una poesia: “Vidi il mio sangue, senza aver compreso / di essere già spettro nei tuoi occhi chiusi.”
E ancora: “Quanto mi costi / poesia del malamore / che stilli versi a gocce / salmastre, lacrime viola / e mai ti curi / di questo petto sanguinante.”
anche nella poesia “Il vizio” si nota la stessa attenzione al suono musicale del verso breve: “…rotondo d’onda. Immonda solitudine, / gioconda noia, stuoia di delizia / ozio riposo e vizio, mestizia / di gioia ricoperta, la scoperta / equivocabile del sé…”
Ecco la musica, ecco i suoni, gli accavallamenti, gli anacoluti, le forti allitterazioni, le onomatopee che rendono la poesia musicale e le parole suoni.
Come una vera melodia tutto prende senso quando ogni nota è messa al punto giusto; nello stesso modo ogni parola ed ogni poesia servono a significare e dare il giusto suono a questo canzoniere.
Riporto una parte del nuovo romanzo “Giuda”. I testi sono presi dal sito dell’autore. Ovviamente…il mio prossimo acquisto!
Gli occhi scuri di tua madre sono profondi come il cielo di notte, stellato e pieno di presagi. Un cielo amico, caldo e consolatore, che calma l’agitazione dei bimbi prima di prendere sonno, che invita alla quiete e ti porta a sognare un domani migliore. Davanti a me sembrano un libro aperto ma scritto in un linguaggio incomprensibile.
Qual è il tuo segreto, Maria? Cosa celi nel tuo sguardo di madre, quali verità stringono le tue piccole mani bianche? Me lo sono chiesto fin dal primo istante che ti vidi e ora i tuoi occhi scuri sembrano due datteri in una tazza di latte. Mi racconti in un sussurro lieve che tuo figlio è la sacra promessa mantenuta da Dio, un dono grande per il mondo e un regalo immeritato di salvezza per l’intera umanità.
Venne annunciato a te dal soffio misterioso di un angelo, un vento leggero che accarezzò l’acqua di un fiume increspandola appena, una lieve brezza mattutina che sfiorò la tua pelle come un brivido, colmandoti di luce.
«Era mattina. Quel giorno mi svegliai e portavo nel cuore la gioia dei miei quattordici anni. Sentii una voce, aveva il suono tenue del vento in primavera. Ti saluto, Maria. Rallegrati perché oggi hai trovato grazia presso Dio. Così mi disse l’angelo. Perché scelse me? Perché proprio io? Non riesco a trovare una risposta. Ero una ragazza come tante, piena di sogni e desideri. Al momento pensai di non riuscire a compiere un così grande destino, avevo paura ed ero molto confusa. Nel mio cuore però sentivo di essere totalmente libera come un passero in cielo, nulla mi venne imposto e nessuno mi costrinse. Dio onnipotente chiedeva il mio aiuto e questo mi fece sentire indispensabile. Capisci cosa voglio dire? Dio aveva bisogno della mia collaborazione. Il tutto si nutriva del nulla, di me piccola creatura inutile diventata parte del suo grande disegno. Il mio cuore si riempì di gioia e di coraggio come un’anfora che all’improvviso si colma d’acqua che poi esce dal bordo per correre dappertutto. Acqua fresca e pura che irriga la terra e la feconda di speranza nuova. Eccomi. Sono pronta, risposi all’angelo. Fai di me quello che vuoi.»
Da quel giorno la tua vita non fu più la stessa. Mangiavi per lui, respiravi e dormivi per quel piccolo frammento di eterno conficcato nel ventre come una scheggia misteriosa e sublime. Ogni attimo che passava sentivi il battito di un altro cuore dentro il tuo, ogni istante più forte di quello precedente.
Un essere nuovo prendeva il suo spazio e con forza ti spostava le viscere, muoveva il tuo grembo di madre e lo trasformava in un nido accogliente.
Maria figlia di Anna e Gioacchino, Maria lunghe ciglia di sogni, piedi piccoli e svelti che attraversano il mondo. Maria così presto con-segnata ad un destino potente e grandioso preparato per te dall’alba del tempo.
«Diventerò madre. Un figlio abiterà il mio ventre caldo per nove lune, poco alla volta oc-cuperà tutta me stessa. Vivrà nel mio corpo e nei miei occhi. Si nutrirà di me, udrà il rumore della pioggia attraverso le mie orecchie. Che ne sarà di te piccolo figlio della luce? Che ne sarà di te seme di grazia? I miei pensieri correvano all’impazzata. È maschio, mormorai.
L’avrei saputo comunque, anche se l’angelo non me l’avesse detto. Certe cose una madre le sa, certe cose le intuisce.»
Quanto difficile fu portare quel figlio, affidarlo ad un mondo ostile, sostenere il peso, le occhiate maligne e i commenti sottovoce di chi ti giudicava? Eri diventata madre prima di essere sposa e portavi in grembo una vergogna così grande alla luce del sole, davanti agli occhi di tutti.
«La gente non poteva capire. In breve tempo cominciò a vedersi, il mio ventre si gonfiava ogni giorno un po’ di più. Dicevano che mi ero concessa ad un altro uomo, che mio marito era un ingenuo, uno stupido, che avrebbe dovuto ripudiarmi come prescrive la legge di Mosè. È così difficile credere ai miracoli. È stata dura anche per Giuseppe, all’inizio faticava a capire ma col tempo ha imparato a fidarsi di me. Ha imparato a fidarsi di Dio.»
Ti ascolto parlare, la tua voce è suadente e sottile. Gli occhi brillano mentre racconti, sono un firmamento ricamato da migliaia di stelle.
«Non è facile per una madre accettare un così grande destino. A volte vorrei avere messo al mondo un figlio diverso, un figlio qualunque di una qualsiasi madre. Un figlio da nutrire, svezzare, accudire ed aiutare a diventare uomo. Vorrei proteggerlo ancora come quando era bambino e seguiva ogni mio passo. Abbassavo gli occhi e lo vedevo scorrazzare tra le gambe, rideva e si infilava sotto la veste, al riparo da tutto e tutti. Oggi sono io che seguo lui. Mio figlio è diventato mio padre, lui è il mio maestro e vorrei poter essere la sua ombra per stargli sempre vicino.»
Mi stai abbracciando e il tuo abbraccio è un rifugio di pace. Maria, sei il nido caldo che un giorno ricevette tuo figlio e che ora sembra volere accogliere anche me. Mi sento protetto, al sicuro tra le tue braccia magre che ora mi avvolgono di dolcezza. Non potrebbe essere altrimenti. Tutti abbiamo il bisogno disperato di una madre.
Ora sono un piccolo uomo stupito di fronte al miracolo e al racconto di un sogno che non riesco a comprendere fino in fondo.
«Stai vicino a Gesù e lascialo entrare nel tuo cuore. Sii arreso, senza riserve o domande. Lui bussa alla porta di tutti ma non può entrare se non decidi di aprire. È proprio così Giuda. Il Messia ha bisogno di te, senza il tuo consenso non può fare niente. Questa è la più grande libertà concessa all’uomo, la libertà di poter rifiutare l’amore di Dio e di condannarsi a morte. Ascolta attentamente ciò che dico. Arriveranno giorni molto duri, di buio e confusione. La paura ci sbranerà tutti, sarà come un lupo affamato sciolto dalla catena e noi un povero gregge di pecore impazzite che si disperde nella notte. Stai vicino a mio figlio. Non tradirlo mai.»
Abbassi gli occhi e mi carezzi il viso.
Ti guardo, sei una piccola donna vestita di nero che conosce il destino di un figlio dono di Dio e dono per l’uomo. Una piccola donna custode di un segreto, madre di un miracolo di gioia e meraviglia.
Vorrei sapere amare
Pubblicato: aprile 25, 2013 in UncategorizedTag:Guido Mazzolini, vorrei sapere amare
Vorrei sapere amare
come sogno vago,
gli angeli, i fiori
le nuvole in cielo,
come le stelle
senza toccarsi mai
possedere l’indiviso
la meraviglia di appartenere
addormentarsi accanto
carezzando il centro
più duttile di noi.
Vorrei sapere amare
come gialla allegria,
la solitudine, il tedio,
come bagnarsi di mare
salato, sorridere
alla sfortuna, come speranza.
Vorrei sapere amare
come il vento le foglie
un gatto nero la luna,
come carezza cercata
in una notte buia
come si ama un figlio,
una madre, un ricordo.
Vorrei sapere amare
come verità comprende
l’essenza dell’amore
come sola risposta
a due domande mute,
lasciarti specchiare in me
per riconoscere la stessa
fralezza che ci unisce
e ci allontana poi
urlando i nostri nomi.
Vorrei sapere amare
senza il possesso antico
l’istinto di afferrare
le tue mani per chiuderle
dentro un recinto lucido
legare bianche ali
impadronirmi di te
per ingannare la sorte.
Vorrei sapere amare
come inatteso dono
sorpresa imprevedibile
di un’agonia trascorsa
come amano l’alba
gli amanti solitari
come stornello antico,
un mantra di luce.
neppure ti accorgi
Pubblicato: aprile 22, 2013 in UncategorizedTag:Guido Mazzolini, Il passo del gambero, tempo
L’uomo veste sorrisi e compiacimento
una parvenza mobile di complicità illusa,
ondeggia e scivola a piedi caldi
sanguinanti e nudi.
Pianori di rovi ha percorso
dai giorni più lontani
conosce la voce delle stelle
l’ idioma dei sassi e delle piante,
vulcani dentro gli occhi
e petali pallidi di morte rose.
Un tempo gli afferrò le mani un dio geloso
come Golem di buio appeso a un albero,
un fiore sanguinante di dolciastri odori
gelidi artigli nel tempio della notte.
Se il mare avesse un volto somiglierebbe a lui
lo stesso disegno e suono,
qualcosa di etereo che implode e spaventa.
Niente rimorsi o tristezza
il cielo si copre di seta e osso.
(“L’Attimo e l’Essenza” Arduino Sacco Editore)
Tempo di ombrato mutamento
Pubblicato: aprile 19, 2013 in poesiaTag:Guido Mazzolini, mutamento, tempo