La città era calda e magnifica, fuori da noi, fuori da tutto. Una voce in lontananza e il respiro dei cani, un filo sottile di vento che entrava dalle finestre. E non avere bisogno di altro. È strano come tutto scivola veloce nel tempo e quella dimensione, oggi lontana e sospesa, resta ammucchiata in un angolo, coperta da inutili giorni, da ciarpame di vita riposto meticolosamente davanti ai tuoi occhi aperti.
Era la nostra sera e mi osservavi. Sorridevi accogliente, la tua anima una porta aperta, un rifugio sicuro. E io che mi lasciavo andare e accettavo i tuoi tentativi di entrare. Io sempre trattenuto e legato alla catena, io e le mie porte chiuse, io e i miei silenzi ermetici che avevi trasformato in musica, canzoni sguaiate da una chitarra imbracciata come un mitra.
Le tue vertebre sotto le dita, un rosario di desideri che ti raccontai in un fiato. Le mie mani scivolarono sulla gabbia delle costole, quella scatola d’ossa che racchiudeva il tuo cuore. E il tuo odore e la pelle, e il ritmo ondulato del respiro. Estasi umida e calda, un guanto caldo in una notte d’inverno. La mia seconda pelle. Il tuo corpo diventò la mia casa, entrai in te come l’esodo di un popolo schiavo e finalmente liberato. Entrai in te come la sola cosa possibile, come l’unica soluzione ai miei dubbi, come la sola meta del viaggio. Entrai in te e in noi, nello spettacolo di un piacere denso che invase l’universo ricoprendo ogni cosa, il pavimento, i muri, fino ad innalzarsi come un’onda e a uscire dalla finestra per diventa aria pura, irrorare le piante e arrivare fino al mare. Entrai in te, nei tuoi occhi spalancati che mi guardavano come si guarda un miracolo, con la stessa intensità di chi trova una pietra preziosa nascosta nel fango. Lo stesso furore che scuote gli uragani e scoperchia i tetti, la stessa forza della luna che muove le maree. Diventasti per me madre e figlia, terra e aria, fuoco e tempesta. Entrai in te, come la prima volta. La prima volta che pensai di essere dio.
Guido Mazzolini