Grazie, come sempre, Guido. Mi hai commosso.
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I miei figli sono bellissimi.
Cresciuti, il tempo ha macinato stagioni, le loro e le mie, li osservo da questo angolo di vita e li ammiro. Ho perduto i bambini che erano, quelli che gettavano le braccia al mio collo, quelli che si fidavano ciecamente di me. Quei figli di una volta non esistono più e vivono nei miei ricordi, il germoglio è diventato fiore, frutto, albero rigoglioso. Ma quando i miei figli ridono accade un piccolo miracolo. La voce, il viso, lo sguardo ritornano a essere quelli di allora, in loro riemergono i bambini di un tempo, indifesi eppure fortissimi, quelli che dipendevano da me e consideravo come una parte inscindibile, come un braccio, una gamba, come un pezzo di cuore.
I bambini ringraziano per ogni cosa, non con la voce ma con lo sguardo. Sorridono con gli occhi e con le labbra, alzano le braccia al cielo e benedicono la gioia. È il loro modo di dire grazie, e ci riempie il cuore. Poi, crescendo, il tempo getta addosso le maschere più cupe. Impariamo presto a ingannare noi stessi, tradendo l’essenza più vera di quello che siamo, e involontariamente vestiamo panni che non ci appartengono, recitando la parte di chi non attende nulla, di chi ha appeso l’anima al chiodo. Si rischia di diventare adulti così, perdendo l’istinto del sogno e l’umiltà di ringraziare con naturalezza, come l’erba è grata alla pioggia, o la nuvola alla tramontana.
Eppure la gratitudine è benzina preziosa, funziona e spinge avanti il motore della vita. Si può credere in Dio e ringraziarlo, oppure non crederci e pensare all’esistenza come a un accidentale gioco d’incastri. Si può ringraziare la sorte, la vita, qualunque cosa ci venga in mente. Viviamo, respiriamo, sorridiamo e piangiamo. Ogni istante accade irripetibile, dobbiamo soltanto accorgercene.
Ho avuto cielo sulla testa e terra sotto i piedi, aria nei polmoni e acqua da bere, cibo in tavola e due figli che aspettavano il mio ritorno. Ho avuto una famiglia, una madre e un padre, un gatto, un libro di poesie da scrivere e tanta musica da suonare. Tutto intorno a me è stato fonte di bellezza intangibile e nascosta, bastava solo riflettere, guardare oltre, esserne consapevoli.
Penso ai miei figli e penso al dono. Non a quello guadagnato col sudore, al dono e basta, quello capitato senza cercarlo, quello che succede al di là dei meriti o degli sforzi. Mi concentro sul regalo e gioisco, grato di essere grato.
Non è facile essere padre, non lo è mai stato. Difficile scardinare alcuni pregiudizi, preconcetti, pensieri che invadono le coscienze. Ho sempre cercato di essere un punto di riferimento, precario, a volte instabile, ma comunque un punto fermo, qualcuno di cui i miei figli avrebbero potuto fidarsi. Non ho mai voluto essergli “amico”, la mia generazione ha respirato quella psicologia un po’ squallida che suggeriva di abbandonare l’autorità del genitore per abbracciare il ruolo del “compagno”, più comodo e meno impegnativo. Ma i figli hanno bisogno di un padre, non di un amico. Il ruolo di amico non è destinato a chi li ha messi al mondo.
Perché il punto cruciale è proprio questo, mettere al mondo significa fornire i mezzi per vivere e affrontare il viaggio, le scarpe più adatte, i vestiti pesanti per le stagioni fredde, un cervello agile e un cuore largo.
Oggi guardo con orgoglio i miei figli e credo di aver fatto un buon lavoro. Hanno preso in mano il timone della vita, ognuno con i propri tempi e i propri mezzi, navigando futuri che nemmeno riesco a immaginare.
Cerco sempre di essere quel punto di riferimento sbiadito, mescolo in parti uguali cinismo e follia, a volte comprensivo e a volte incomprensibile, sputo sentenze e consigli non richiesti. Loro mi ascoltano e nemmeno ci fanno caso. È un buon segno, significa che possono fare a meno di me, che camminano con le proprie gambe e pensano con la propria testa.
E va bene così.