Ascoltavo Miles Davis, la sua musica nera e impenetrabile, le note spigolose e oscure, piccoli miracoli, ombre disegnate nella magia di una tromba che sillabava il linguaggio dell’anima. Michel Petrucciani fu per me il genio incastrato nella fragilità di un corpo deforme. Il luccichio dei suoi occhi, le stampelle e la voglia di sedersi alla tastiera, i pedali del pianoforte sollevati per consentire alle gambe di raggiungerli. Michel e le sue camicie stravaganti, Michel e i suoi occhiali, le mani piccole e potenti come due colibrì nervosi sulla tastiera. Il suono di un gigante e l’ingenuità di un bambino. Poi Keith Jarret, Herbie Hancock, Bill Evans e Cick Corea. Count Basie e Horace Silver, chiunque fosse in grado di squarciarsi il petto e donarmi il cuore, chiunque sfiorasse l’infinito con le dita. Pianisti immensi, eccentrici, celestiali improvvisatori, equilibristi sulla corda tesa della tecnica. Li vedevo felici e scanzonati, a differenza dei mostri sacri del pianismo classico, tutti impettiti e seri, stretti nei loro smoking scuri. Il jazz mi catturò, alzai le braccia al cielo e mi consegnai nelle sue mani misteriose. Grazie a lui accantonai il ricordo di Claudia. Mi adagiai in una dimensione consapevole di sogno, pensando che tutto stesse andando come doveva. Sfioravo i tasti del pianoforte e percepivo l’essenza del rimpianto. Esternai il pensiero di Claudia in una costante catarsi, la sua assenza divenne un dolore talmente fioco che pensai di essere riuscito a sublimarlo. Ringraziai il tempo e le mura innalzate dal passare dei giorni. Ringraziai la musica e il pianoforte che spegneva il pensiero. Suonavo e improvvisavo melodie e fraseggi, ero un piccolo insetto arrampicato su specchi dorati.
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