Archivio per gennaio, 2022

Guardare più in là, guardare oltre. Difficile evitare le apparenze, percepire cosa si cela dietro gli sguardi delle persone. Meglio sorvolare al limite della prima impressione e accontentarsi dell’occhiata distratta, del passaggio di un parere che nemmeno scalfisce la superficie. Usciamo dalle nostre case e incontriamo altri noi, esistenze che ci raggiungono e colpiscono di striscio. Altre mani, altri sguardi. Marciapiedi di città e stagioni che cambiano colore al cielo. E quante vite come foglie che stormiscono al vento. Potessimo leggere oltre la pelle di chi ci cammina accanto, scopriremmo universi di pensieri, esistenze e storie inconfondibili. Gente che nasce e che muore, un ricambio continuo di mani e di piedi a calpestare la terra.
L’umanità si rinnova in una milonga senza fine e tutti ne facciamo parte, sfrenati danzatori che attendono un domani arreso. Certe esistenze sono tempeste di sfortuna, accadono alle nostre spalle e quando ne veniamo a conoscenza riempiono i pensieri. Sono eventi, disastri, un accanirsi di guai e battaglie senza fine. Persone che combattono a denti stretti, serrando i pugni, pronte a difendere quel poco che gli è stato concesso. Esistenze di seconda mano, vite che marciano su binari arrugginiti e sferragliano malinconie. Poteva andare meglio. Per loro, forse, la gioia è un paese troppo lontano. Oppure la serenità va conquistata senza guardarsi in faccia e non tutti se la meritano. C’è chi s’impegna poco e alla fine guadagna soltanto lacrime e sfortune. Osserviamo queste esistenze ammalate e un po’ ci rincuoriamo. La disgrazia, quando non ci riguarda in prima persona, è pura catarsi. Accade davanti ai nostri occhi, ma è una sciagura che succede ad altri, facile da schivare. Ringraziamo la sorte, alziamo le spalle e tiriamo il fiato. Il nostro giro è stato più fortunato.
Meglio deliziarsi al pensiero di possedere una circoscritta serenità. Abbiamo tutto quello che serve e pure qualcosa in più, affondiamo in paludi di oggetti e desideri che non servono realmente, eppure appartengono alle nostre vite e noi apparteniamo a loro. Nati nella metà fortunata del mondo, soddisfatti di quello che abbiamo, infelici di quello che siamo. Eppure basterebbe uno sguardo più aperto, una mano più calda. Basterebbe riconoscersi e pensare che nell’oceano della vita navighiamo tutti sulla medesima barca. E tutti meritiamo un viaggio, accumunati dalla stessa rotta. Nuvole difformi, ognuna della stessa consistenza. Marinai più o meno capaci, più o meno fortunati, in balia di venti generosi e sospinti dal moto delle stelle.

Guido Mazzolini

Tutto accade per caso. Facile pensarlo. L’idea porta un immediato beneficio, perché ci convince che ogni cosa che succede non sia frutto di un disegno. Anche la più infima tristezza, anche la disgrazia più nera. E se non fosse così? Se tutto nascesse da un apparente ammassarsi caotico di eventi e occasioni, che in realtà sottende un progetto preciso? Non è forse questo il senso della vita, cercare di dare un ordine al disordine?
Agiamo in automatico, come il respiro, l’istinto primordiale che ordina ai polmoni di riempirsi d’aria. Si apre la gabbia delle costole e il petto si gonfia. Non dipende da una nostra volontà, c’è una coscienza nascosta che governa il respiro, e guida il volteggiare dell’esistenza.
Viviamo senza vivere davvero, pensiamo senza pensare, guardiamo senza guardare. Gli automatismi della vita ci portano a essere animali sociali e inconsapevoli.

Guido Mazzolini

e, a proposito…buona domenica!

La colpa è dei poeti,
di profumate nostalgie vendute a caro prezzo,
iperboli, zeugmi, chiasmi, anafore
e marchingegni raffinati per chiudere il pensiero,
sigillarlo dentro sillabe contate
numerando accenti e sentimenti
mai nello stesso posto, sempre altrove
additando mete irraggiungibili,
metriche ermetiche, addossati paradossi
e basterebbe non pensare
sillabare il mantra del respiro:
“Vita inenarrabile,
meravigliosa Vita.”

Guido Mazzolini

Esserci è la cosa migliore, essere presente sempre e non solo metaforicamente. Quando hai cura di qualcuno devi vivere nelle azioni e nella realtà, perché non possono bastare i pensieri. Non si ama da lontano, non é possibile, sarebbe un insulto all’essenza stessa della comunione tra le persone. Se lo fai è un errore, un gioco inconsistente, una strategia che non paga. In fondo, se ci pensi, esserci significa amare.

Guido Mazzolini


23 anni fa, l’11 gennaio del 1999, moriva Fabrizio De André.
Una breve analisi di questa figura artistica rivoluzionaria e inimitabile.

Non si può parlare di canzone italiana senza citare Fabrizio De André. Sarebbe un errore, un’omissione colpevole che priverebbe il cantautorato di uno dei suoi maggiori capisaldi e di una colonna che sostenne la poetica di quella “canzone d’autore” che si sviluppò dal 1970 fino alla fine del secolo, e che vide in De André uno dei maggiori maestri. Con il termine “canzone d’autore” si definisce una forma d’arte che invoca l’esistenza di un “autore”, in assoluto inteso come creatore. La canzone d’autore non considera il testo un semplice fenomeno di consumo, ma un canale privilegiato di comunicazione in grado di veicolare messaggi. Dalle sue origini politiche al passaggio a fenomeno di mercato, negli anni ’80 la canzone d’autore abbandonò i temi di rilievo sociale per occuparsi degli aspetti più intimi dell’uomo e contemporaneamente si arricchì di forme e risorse musicali. Dalla politica all’anima, è questo il percorso implodente della canzone d’autore, e anche De André seguì questa direzione “ostinata e contraria”. Le sue radici sono molteplici, da quella scuola straniera che passa da Bob Dylan e Leonard Cohen, approdando poi agli stilemi francesi degli “chansonnier” (Georges Brassens, ma non solo). Radici che hanno sostenuto la lunga carriera di De André, troppo presto interrotta da una malattia che ha privato il mondo della sua voce suggestiva. Come cantautore è stato il primo a sporcare le atmosfere gioiose e rosa della “canzonetta” italiana, scrivendo ballate intrise di realismo e pessimismo, pregne di emarginazione e derelitti, di quelle anime perse e salvate nelle quali De André si è sempre riconosciuto. La sua poetica è ispirata alle ballate medievali, spazia dall'”Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Master ai Vangeli apocrifi, da Baudelaire alla tradizione sarda e alla filmografia di Fellini. Argomenti che hanno seguito in parallelo un’evoluzione mai piegata alle facili mode del momento e ai compromessi. Il linguaggio di De André è quello di un poeta fuori dal coro, una voce malinconica e sincera che insegue la forza splendente e dissacrante dell’ironia e attraverso di essa frantuma ogni convenzione. De André detesta i benpensanti, i farisei, gli ipocriti e i cialtroni, figure metastoriche che attraversano ogni tempo. Il suo è un messaggio luminoso di riscatto, in nome di quella libertà di pensiero che indossa nelle canzoni, come un vestito ormai diventato fuori moda. Difficile spiegare tutto questo alle generazioni di oggi, troppo presto date in pasto a una musica che è soprattutto mercato, glitter, trap e paillettes. Meglio allora lasciar parlare la musica di Fabrizio, la sua voce vellutata e inimitabile. Ascoltatelo, in fondo non serve altro.

Guido Mazzolini

Occhio che indaga come giudice inquieto
dei silenzi gelidi, frugando gli antri più segreti
senza comprendere l’attesa
di un monologo d’attore consumato,
brucia il mio petto
e m’attraversi d’anima e di fuoco
ma sei soltanto poca fiamma di candela
nelle mie stanze maliziose e vuote.
Io uomo di pianura
sono pianura d’uomo
nel mio schernire dei e fortuna
mastico nebbia e rapide illusioni
alla ricerca di ogni sacro voto
celato dall’umana ricorrenza,
in questo camminare temporaneo
nell’oscillare pigro del mio tempo.

Guido Mazzolini

Smarriti tra la ragione e la pazzia, tra il tutto e il nulla, cercando piccole gocce di verità e acchiappandole al volo. Viviamo la vita, impariamo a stare al mondo ed è già ora di andarsene. Avvolti nella coperta del tempo, lasciamo che tutto scorra, sorridiamo ed è il sorriso di chi ha perso.
Dove abbiamo lasciato l’istinto, il bisogno, la voglia di libertà? In quale universo si è nascosto il bambino che danzava sotto la pioggia? Ieri brancolavamo nel buio cercando la luce, oggi il buio è lo stesso, ma i nostri occhi si sono abituati alla penombra e interpretano le forme che ne emergono. Così ognuno ha la proprio idea di libertà e la modifica in base alle occasioni. Ciò che piace a me, ciò che va bene a me. Il resto non conta.
Da soli non avremmo potuto farcela. I tentativi di decifrare l’indecifrabile sono modesti voli di pensiero, a volte più accurati, ma sempre una rappresentazione allegorica delle nostre paure e dei nostri desideri. Questo dovrebbe essere il significato di un’epifania che sancisce la decisione di Dio di scendere in mezzo agli uomini e di prenderne la forma, l’odore, la sostanza. Dio padre degli uomini, e noi figli di Dio. A pensarci davvero ci sarebbe da impazzire di gioia.
Auguri.

Guido Mazzolini

La tua esistenza si è conclusa 5 anni fa, quando è finito il tuo camminare sul mondo, il respirare una realtà che tutti ci permea e ci rende esseri umani. Ma non è questo che ci affratella, in fondo il nostro viaggio è solo uno schiocco di dita, secco davanti all’eternità, qualcosa che in un attimo abbiamo già smarrito, soffiato come polvere impalpabile. È la danza della vita, e la tua è durata 84 anni, 3 mesi e 26 giorni. Sorriderai davanti all’abitudine di tenere misurato il tempo, ma dall’altra parte dello specchio abbiamo paura di non averne a sufficienza e lo teniamo contato e al sicuro, come un bene prezioso.
Hai percorso un’esistenza piena, me lo hai confessato qualche volta, fiero di avere vissuto la vita che volevi, mentre un sorriso ti illuminava gli occhi. Avrai avuto paura, come tutti, ma la tua forza è stata quella di riuscire a guardare al di là del mondo. Camminavi su questa terra, ma non eri di questa terra. Sfidare l’apparenza e andare oltre ti ha salvato e un po’ ha salvato anche me. In fondo al viaggio ti attendeva il mistero più grande, quel giorno di 5 anni fa sei nato per la seconda volta ed è stato per sempre. Ho vissuto con te gli ultimi momenti e non siamo mai stati uniti come in quelle ore. Eri già lontano ma ancora riuscivi a darmi coraggio, partivi e salutavi dal finestrino lasciando tutto sul marciapiede di una stazione fredda.
Difficile definire il nostro rapporto, ma da padre ti confesso di avere capito molti errori fatti, e di essere riuscito a perdonare le mie incongruenze. A volte mi sono ritrovato addosso alcuni atteggiamenti tuoi, qualcosa che mi avevi detto e che giaceva sepolto in un angolo della mente, come un seme che sboccia e lo fa al momento giusto.
Non ti vedo, ma so che ci sei. Hai cambiato forma e ora che respiri e ti nutri di infinito, il tuo sguardo mi attraversa, oggi più di quando i tuoi occhi erano caldi di carne e sangue. Ti aspetto e tu aspetti me, è bello saperti così vicino, in attesa di un giorno e di un incontro. Divideremo il pane delle nostre anime, ancora scoprirò quel sorriso e le risate da bambino, ci sarai e avrai lo sguardo colmo di eterno.
Chiudo gli occhi mentre mi culla una melodia segreta. La terra è tiepida sotto la schiena, il cielo è uno specchio rovesciato e azzurro. Sorrido, mentre ho voglia di piangere. Lacrime calde e una pace liquida che sembra lavarmi il viso. Sei tu, chiamato e tornato all’eternità. Sei tu e vivi dove non esiste fame, dove tutto è certezza e amore.
Mi guardi, ti guardo. So dove ti trovi. Tieni un posto per me, immagino che il panorama sia meraviglioso.

Guido Mazzolini