La mitologia romana racconta che un giorno Cura plasmò la figura di un uomo con l’argilla trovata sulla riva di un fiume. Vide la propria opera e si affezionò a quell’immagine, ne contemplò il viso, le mani, le gambe. Fu così che Cura chiese a Giove di infondere la vita a quel manichino di fango. Il padre degli dei acconsentì alla richiesta e l’uomo prese vita. Ma a chi apparteneva quell’essere meraviglioso? Chi avrebbe dovuto darne il nome, chi ne avrebbe rivendicato il possesso? Cura sosteneva che l’uomo appartenesse a lei che per prima ne aveva plasmato la forma, Giove diceva che la creatura era di chi ne aveva infuso lo spirito. Alla disputa si unì anche la Terra che rivendicò il possesso dell’uomo plasmato dal fango. Per risolvere questa diatriba venne interpellato Saturno che riuscì a mettere tutti d’accordo. Alla morte dell’uomo, Giove si sarebbe riappropriato dello spirito e Terra della materia che ne aveva composto il corpo. Ma a possederlo per tutta la durata della vita sarebbe stata Cura. Proprio lei, quella divinità minore e sconosciuta che per i romani rappresentava il “prendersi a cuore”, ma anche l’inquietudine e la preoccupazione generata dall’attenzione nei confronti di chi non ti apparterrà fino in fondo.

Guido Mazzolini

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commenti
  1. Giovanna Foresio ha detto:

    Non conoscevo questo mito, oppure lo avevo del tutto dimenticato. Grazie 🙋‍♀️

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