Archivio per la categoria ‘erotismo’

Il prezzo dell’esistenza è vivere di schiena camminando all’indietro, certi soltanto di un presente dato. A volte piccole consapevolezze ci regalano la percezione di avere le idee chiare. Sono rari momenti di beatitudine dove esultare di un quotidiano certo, ma se questa prescienza diventasse la dimensione consueta della vita, ci stancheremmo presto. Preferiremmo l’insicurezza del dopo e la visione miope dell’esistenza. Meglio la penombra, il dubbio, perché questo essere vivi e precari ci permette di ricevere il prodigio dello stupore. Abitiamo una dimensione dove tutto è possibile e tutto può succedere. Ogni istante è un lancio di dadi e restiamo in attesa, nella speranza che prima o poi arriverà il tiro fortunato, quello che dona la soddisfazione di appartenere alla vita.
Usciamo per le strade e possediamo vite diverse, cariche di pensieri, sospetti e indugi. Percorriamo sentieri già percorsi dai nostri simili, milioni di passi sui viottoli del mondo. Esistenze che interrogano, sguardi che invocano un contatto, un conoscersi, una parola in più. Odori, colori, sapori. Bagliori. Collezionisti del tempo che passa, contiamo i ricordi come monete sotto vetro. Dovremmo cercare di mettere ordine nel tempo che resta, senza ammassare nuovi trofei.
Giravolte e magie, intoppi e debiti, abbiamo gli stessi occhi, la stessa luce e la stessa attesa. Raccoglitori di istanti, fratelli in questo ondeggiare del presente.

Destinati a direzioni diverse

A volte succede. Come oggi ad esempio, ritrovo una vecchia foto, io e mio padre, lui mi tiene la mano, io lo guardo, il gigante e il bambino, quando ancora era un gigante e prima che il gigante ritornasse ad essere bambino. E in quel momento qualcosa mi prende in gola, gli occhi colmi e un suono che esplode dentro. E nessuno a cui raccontare quella sensazione, avrei voluto prendere il telefono e comporre un numero a caso, solo per sentire una voce sconosciuta e raccontargli quel suono secco nello stomaco, quel sapore salato nello sguardo. Poi subentra il raziocinio e la testa si siede sopra al cuore a riportare un po’ di pace. Il respiro rallenta, gli occhi ritornano asciutti.
In fondo è questo il vero significato della scrittura, perché un’emozione non condivisa implode come una stella e genera un buco nero in grado di succhiare ogni energia.

Guido Mazzolini

“Al coraggio del coniglio che fugge e molla tutto, chiude porte, getta passati imprescindibili alle spalle, preferisco il coraggio di chi resta contro ogni evidenza, ingoiando il dolore, la rabbia, annullando sé stesso. Il coraggio di chi non cancella pagine, ma riscrive un futuro rinnovato. Il coraggio di chi evita la morte per cercare una rinascita. Il coraggio di Penelope che aspetta, il coraggio di Ulisse che sfida gli dei per ritornare a casa.”

dalla pagina fb di Guido Mazzolini

Ho riportato questo post che mi ha fatto riflettere e mi chiedo, e vi chiedo: meglio una fuga onorevole quando in gioco c’è la propria serenità, libertà, autostima…insomma quando un rapporto si è logorato a tal punto da diventare impossibile e insopportabile, oppure meglio rimboccarsi le maniche, ingoiare l’orgoglio e provare a ripartire, a ricostruire, ma in nome di chi, in nome di cosa? Quello che c’è stato (bellissimo ma ahimè finito) può essere un valido motivo per ricominciare? Attendo consigli, amici. Grazie.

Elena.

“Sto bene qui. Intreccio le mani dietro la nuca e chiudo gli occhi. E mi piace così. Resto ubriaco, pazzo, azzardo scoperte impossibili, funambolo sul filo teso. E rido, rido in faccia alla sfortuna, alle donnette acide e infelici, ai moralisti sul pulpito e a chi ti osserva da lontano, convinto di avere già capito. Ma non ha capito nulla. E rido, rido in faccia al malinteso, alla vela ammainata e ai jeans attillati, alle tinture in testa e ai cervelli preconfezionati.
E tutto mi avvolge, e tutto è benedetto.”

Guido Mazzolini

…per me questa frase è diventata un mantra!

Scrivo per dare voce a un silenzio, affascinato dal mistero che si dona senza svelarsi davvero. Ondeggio tra due estremi, a piedi nudi sull’abisso e a volte mi domando quale sia il senso del narrare, del raccontare attraverso le parole. Scrivo e navigo fiumi di epopee diverse, pozzi meravigliosi dove attingo inchiostri. Osservo e mi stupisce un mondo che pullula di cambiamenti immobili, ideologie spacciate un tanto al chilo e ipotesi di trionfanti futuri. Osservo e scavo, perché più cerco di guardare fuori e più mi accorgo della necessità di scoprire me stesso. E sono un oceano, e non ho confini. Così una mattina mi scopro a fare il conto dei giorni trascorsi e di quanto tempo ancora mi resti da vivere. Azzardo un’ipotesi, visualizzo un calendario e segno gli anni, i mesi, le ore. La vita è un percorso a occhi bendati, smarrendo il tempo che mi è stato affidato, lasciando indietro migliaia di attimi. È un incessante conoscere e dimenticare, sfidare vette e abissi. Perderò mio padre, mia madre, un amico, un figlio. Perderò la speranza, la luce, l’ottimismo, perderò la percezione di un’eternità intuita. Un poco alla volta questo tempo si sgretolerà come un castello di carte e farà male, perché mi sentirò solo. Così scrivo e giorno dopo giorno annoto quello che succede in un diario. La gioia e il dolore, i piccoli miracoli quotidiani e quel senso di vertigine al cospetto della vita, quando capisco di essere un punto talmente piccolo, una macchia di colore, ma senza di me l’affresco avrebbe un significato diverso. Scrivo cercando una risposta, covando alibi che tracciano iperboli di sillabe. Scrivo di ciò che mai vedrò e di posti dove non sono stato, di marinai e peccatori, di santi e truffatori. Non c’è un essere umano uguale a un altro, quanta esistenza tra le pagine, quanta luce tra le sillabe, siamo isole separate da infinite distanze, mescolati nell’amalgama del tempo. A volte ho il sospetto che se non scrivessi, la vita non accadrebbe, o forse me ne accorgerei meno e sosterei lontano, in superficie, accontentandomi di una realtà supina e triste. Perciò continuo a scavare, come il cercatore d’oro che non si arrende e filtra acqua e sabbia nel crivello, perché nella melma riesce ancora a scorgere il brillare di una pagliuzza gialla.
Cerco e trovo, costruisco memoria e sogno, il mio scrivere ondeggia tra due dimensioni inconciliabili. Da una parte il passato, ciò che ho vissuto e perso. Dall’altra il futuro che deve ancora succedere, che immagino come un treno nella notte e ne percepisco il suono in lontananza. Ieri, domani, la vita come un pendolo che oscilla e il bisogno di catturare qualcosa nel tentativo di conservarlo, come il cacciatore di farfalle che tiene tanti piccoli cadaveri sotto vetro, infilzati in un tappo di sughero. Scrivo per immaginare un futuro o una storia, per dare corpo a un sogno. Muovo la palude del passato, aspetto che il fango si depositi sul fondo e che l’acqua diventi più limpida. Affiorano ricordi, schegge di vita che ho vissuto e mi domando se davvero io abbia assaporato quella sensazione o si è trattato di un’ombra, di un pensiero costruito. Scrivo per fare spazio o per colmare un vuoto, lascio impronte sulla neve e sono tracce di tutti i piedi del mondo, di ogni viso incontrato, cercato, perduto senza nemmeno sapere perché. Orme leggere di bimbo, di giorni felici che nemmeno toccavo il suolo, volavo e non me ne accorgevo. Attimi guerrieri e luoghi già visti, strade battute, omissioni di percorsi nell’oblio di ogni mano sfiorata, di ogni sguardo incrociato. Tracce di piombo, di risa e sole, di fumo e dolore, segni che marchiano a fuoco e incidono il cuore.
Penso allo sguardo di mio padre e il suo sorriso mi attraversa. Mi riconosco in quella stanchezza, vedo me arrivato alla fine, seduto sulla stessa seggiola, la stessa vestaglia da cardinale arreso, giunto al traguardo. Mi sfioro il viso e ripercorro ogni traccia lasciata da chi mi ha voluto. Nel silenzio di un giorno qualunque è bello cercare le impronte di chi mi ha amato e ha contribuito a plasmare quello che sono. In fondo, scrivere è ricercare un’origine, è il miracolo di un angelo precipitato in terra. Il tempo è una categoria di pensiero e quando smetto di misurarlo mi accorgo che tutto è proiettato in un presente senza fine. Ali spiegate al cielo e una brezza che porta lontano. È un colpo diretto al cuore, è malinconia e gratitudine. È impronta presente di ciò che sono stato e sarò.

Tratto da “Destinati a direzioni diverse” di Guido Mazzolini

Tutti lo siamo stati, per qualcuno è durato di più, per qualcuno meno. Venuti al mondo, chiamati alla luce e vissuti. L’infanzia è una condizione felice, o almeno dovrebbe esserlo. Invece esistono bambini sventurati, piccole foglie che nascono al buio e nascono male. Storte, aggrovigliate al ramo sbagliato, germogli che non hanno il nutrimento necessario e cercano una luce vista da lontano.
Bambini capitati per sbaglio, generati da adulti distratti e incidenti di percorso. Bambini acquistati, affittati, progettati e costruiti. Bambini figli di altri bambini, genitori anacronistici e immaturi, in testa un’idea patinata di amore lontano dal dono. Bambini violentati, condannati a morte dall’egoismo e dalla paura. Piccoli resti gettati tra i rifiuti. Strappati, aspirati, smembrati. Bambini ammazzati da madri già morte, uteri che si trasformano in patiboli, figli sacrificati in nome di una libertà crudele che tarpa le ali e uccide la speranza. Tutto accade nella noncuranza del mondo, sotto gli occhi di chi si gira dall’altra parte e finge di non capire. Siamo assenti e complici, privi di pietà. Quanto cinismo, quanta disperazione in un’umanità che sacrifica i propri cuccioli sull’altare del diritto. Poi ci sono i bambini di mondi lontani e sai di loro per procura, per un telegiornale o una notizia arrivata all’improvviso. Hanno occhi grandi e tristi, perché qualcuno ha ucciso la speranza. Stentano sorrisi mentre affogano nella palude di un mondo difficile, circondati da una povertà che nemmeno ci sforziamo di immaginare. I bambini sono figli di tutti, patrimonio di un’umanità che si rinnova. Numerosi come le stelle in cielo, generati da un sogno e da una notte di luna dipinta. Bambini pensati, desiderati, donati da una vita che ancora sorprende. Bambini che approdano all’improvviso e scuotono pareti, dipingono mura di sassi, aprono cancelli e speranze. Un giorno comprendi di aver generato una vita, scelto per essere madre, per essere padre. Capisci che tutti siamo figli, ma non tutti diventiamo genitori. E non si tratta della sorte che ha scelto alla cieca, ma di una vocazione reale, perché essere genitore è il dono di aprire le braccia e accogliere il nuovo che arriva, è un compito che ti è stato affidato.
Bambini che nascono, crescono, diventano giovani, adulti. Diventano vecchi e ritornano bambini. Esistere è una parabola certa, e nella sua evoluzione riporta al punto di partenza. Perderemo i capelli e i denti, parleremo un linguaggio sconosciuto e guarderemo altrove. I vecchi e i bambini si assomigliano. Il mistero più grande è pensare che la vita ci riporta alla stessa stazione. Il mistero più grande è pensare che alla fine del viaggio torneremo da dove siamo venuti.

Brano tratto da “Destinati a direzioni diverse” di Guido Mazzolini. Lo trovi QUI

L’attesa è un passaggio rasoterra di grazia, a volte obbligato, spesso offerto da casuali occasioni. Immobili nell’epoca del movimento, frementi, ma con la pazienza di chi crede nel cambiamento. Aspettiamo, sperando che alla fine del giorno arriverà qualcosa, qualcuno, un segnale o una risposta. Quante domande frullano nella mente, quante soluzioni che troppe volte ci hanno deluso. Vogliamo più vita, più gioia e sorrisi spontanei nati dalla leggerezza, dalla certezza di un approdo.
Il desiderio prevede l’attesa e ne ambisce l’arrivo. Quasi smettiamo di respirare, orecchie tese a percepire il suono, lo schiocco di dita del destino, la vita che sussurra una canzone. Desiderio, attesa, speranza. Tre azioni per un unico scopo, tre tinte che insieme generano un colore capace di trasformarsi in magia. Siamo responsabili di ogni speranza, con la forza della pazienza, come il contadino che semina e si prepara all’attesa. Non può fare di più, sarà la terra a prendersi cura del seme, sarà la natura a cullare il miracolo. Le stagioni non mentono, il tempo non ha mai deluso.
La madre racchiude il segreto nel ventre e attende il compimento di nove lune per realizzare una promessa. La vita di un figlio è invisibile, vicina e lontanissima. Due in uno, eppure così distanti. La maternità inizia con un tempo di fiducia, una terra neutrale dove tutto si muta nell’intimo. Anche l’azione di amare si accompagna alla calma di chi aspetta. Chi ama impara la pazienza, rispetta i ritmi dell’altro e della sua felicità.
È il prodigio del cambiamento dove ogni cosa si rinnova. L’artista attende lo svilupparsi di un’idea, il fiore la pioggia, la notte il giorno. Nella danza del mondo si cela il desiderio di trasformazione. Non esiste paura o pigrizia, non c’è noncuranza nell’attesa. Niente certezze, perché nessuno può conoscere il futuro. Nel silenzio più puro c’è solo il sorridere del saggio, quello di chi ferma la voce aspettando una musica che annienti il frastuono del mondo, sapendo che presto o tardi arriverà.

“Destinati a direzioni diverse” di Guido Mazzolini lo trovi QUI

Musica intorno, il naso, uno zigomo, l’impronta più scura sotto gli occhi e quel percorso sconosciuto che attraverso come un monaco in preghiera. Le nocche, il polso, l’intreccio delle vene. Il gomito e una spalla, la schiena una pianura, le vertebre come grani di rosario, particolari di un silenzio nuovo o un tiepido universo disvelato. 
Ancora le stesse domande ripercorse in altri corpi, in altre luci e riflessi su lenzuola antiche. Ho smarrito la strada. Però è bello perdersi, chiudere gli occhi e ritrovarsi in un presente nuovo. Finalmente a casa. Finalmente in pace.
Ai nuovi inizi, e ai vecchi cuori.

Guido Mazzolini

Senza gli occhi il tuo volto è terra disarmata
occhi da ostaggio, punte di spillo
il tuo sguardo scuro come grani di pepe sul tavolo
le labbra spicchi di limone e denti bianchi come sale
capelli sparsi in ogni angolo, a riempire ogni spigolo di muro
di me smussato in ozio nel tuo turbare le stagioni
e partorire stelle e carnevali.
Le tue gambe benedette, appendici e remi, ali che solcano le nuvole
i piedi come pane, i tuoi passi di farina e lievito,
le mani di falco e unghie d’osso perfettamente disegnate
nel fragore del respiro, del tuo corpo e delle sue segrete melodie
delle ossa che risuonano, pelle di tamburo e corde d’arpa.
È tutto ciò che so di te.
È tutto ciò che nego a me.

Guido Mazzolini

Siamo tutti accumunati da un unico fato, e in questo navigare a vista dovremmo essere più compassionevoli nei confronti dell’altro. Invece preferiamo una realtà a misura delle nostre piccolezze, sempre pronti a giudicare, a indicare lo sbaglio, a sottolineare l’errore. Dovremmo guardarci con occhi più benevoli e uno sguardo privo di critica. Braccia aperte, sempre. Cuori larghi. Niente giudizi sull’uomo che cammina al nostro fianco. Non possiamo sapere quale passato lo ha condotto a compiere le scelte che ora guardiamo con sospetto e scandalo, non possiamo conoscere la direzione che avrebbe desiderato per la sua vita, forse nemmeno lui lo sa. Cosa avremmo fatto al posto suo? Forse lo stesso, forse peggio. Nessuno può dirlo e giudicando il prossimo rischiamo di dimenticare il senso di fratellanza insito nella nostra condizione di uomini. Passeggeri della stessa nave, voci dello stesso coro, marinai in balia del medesimo maestrale.

Destinati a direzioni diverse di Guido Mazzolini